Interpretazioni alfieriane (1963)

Alcune “schede” alfieriane pubblicate da Binni sulla «Rassegna della letteratura italiana» tra 1954 e 1961 (nella rassegna bibliografica “Settecento”), raccolte con il titolo Interpretazioni alfieriane in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963, 19763, poi in Saggi alfieriani (1969 e 1981) e in Studi alfieriani (1995).

Interpretazioni alfieriane

Oreste

Il saggio introduttivo e il commento del Cappellani[1] mirano a dare della celebre tragedia alfieriana un giudizio e una interpretazione che, mentre affermano il centrale valore poetico soprattutto nella potente figura del protagonista e nei motivi animatori di questa, limitano effettivamente il risultato generale dell’opera nella constatazione di una diversa e piú debole vitalità degli altri personaggi, i quali, in genere, appaiono al critico meno capaci di movimento e di azione e piú vivi ed attivi solo quando vengono investiti dall’impeto che anima Oreste. Di questo, considerato come motore dell’azione e unico personaggio compiutamente poetico, il Cappellani individua il motivo animatore, piú che nella pura poesia dell’azione o nella passione della vendetta, nella sua natura giovanile, in quella poesia della giovinezza che darebbe a tutto il suo agire e al suo stesso desiderio di vendetta un carattere luminoso ed entusiastico, che poi nel finale si cambierebbe in una furia frenetica e cieca, e conferirebbe alla sua delusione di fronte alla fuga vile di Egisto un tanto maggior risalto come crollo della fervida illusione giovanile in una vendetta realizzata con un aperto combattimento. Tutto il commento si ispira a questa interpretazione di Oreste «eroe giovane» e alla volontà di precisare i limiti della tragedia, soprattutto per quanto riguarda il personaggio di Clitennestra, sentita statica ed ondeggiante, «ambigua», «amletica» e «accomodante» nel suo desiderio di salvare gli oggetti del suo affetto contraddittorio di sposa e di madre.

Evidentemente il Cappellani ha risentito (per quanto in maniera piuttosto confusa e senza la capacità di spiegare in maniera criticamente esauriente la propria impressione fondamentale, complicata da troppe velleità di interpretazione storica, psicologica, stilistica non bene giustificate e fuse, e da un linguaggio piuttosto approssimativo e non privo di enfasi) della situazione della piú recente critica alfieriana di fronte ad una tragedia che, considerata per lo piú fra i capolavori dell’Alfieri per la forza impetuosa del protagonista e per la tensione dell’azione (donde l’entusiastico giudizio poco discriminante del Ferrero e quello pur positivo, ma ben diversamente articolato e misurato, del Fubini), subí da parte del Momigliano una severa revisione (nella Storia della letteratura italiana, dopo un primo giudizio piú generoso nel commento al Saul) che ne rivelò i «frequenti parossismi» e ne limitò la poesia piú vera al contrasto che scaglia l’un contro l’altro i due complici del delitto, Egisto e Clitennestra.

Ma egli non ha saputo precisare la sua impressione centrale e giustificare la difficile situazione di questa tragedia, svalutando troppo facilmente la complessa ricchezza di motivi poetici presenti nel dramma di Clitennestra con la sua complessa lotta interiore, con la sua vita dolorosa, con la consapevolezza della propria sorte (anticipata nel finale dell’Agamennone da quella potente frase – «da qual mano» – che ritorna piú volte ossessiva e tormentosa nell’Oreste), con il suo effettivo pentimento (che il Cappellani erroneamente riduce ad una “commedia del pentimento”), con la sua disperata volontà di salvare il figlio ed Egisto («troppo ti costa»).

Penso che un esame dello sviluppo della tragedia, specie dall’Idea alla correzione che di questa l’Alfieri fece nel ’77 prima di procedere alla stesura, avrebbe potuto aiutare il critico a meglio comprendere la complessità e la ricchezza non totalmente unificata della poesia dell’Oreste, che inizialmente era stato concepito come duro, violentissimo urto fra due gruppi in lotta (quello di Egisto e Clitennestra, solidali completamente nel delitto e nella difesa dei suoi frutti, e quello di Oreste, Pilade ed Elettra, tesi alla vendetta senza esitazioni e perplessità), e che poi venne arricchito, ma anche complicato, da una nuova intuizione del dramma di Clitennestra e da un relativo spostamento della situazione di Elettra.

Donde una certa duplicità di tono nella tragedia, in cui la forza travolgente di Oreste, cosí efficace nella linea centrale dell’azione rappresentata da quel personaggio, non riesce (pur comunicandosi spesso agli altri personaggi e alla stessa Clitennestra, molto piú intensa e forte di quanto appaia al Cappellani) a fondersi completamente con il tono piú tormentoso e complesso del dramma di Clitennestra.

E come il Cappellani non giunge a giustificare la sua impressione di non completa organicità della tragedia e troppo deprime il dramma di Clitennestra, cosí egli non rileva sufficientemente come nella stessa poesia dell’azione condotta dal personaggio centrale non manchino limiti e difetti per quel che riguarda un giuoco di effetti teatrali troppo scoperti nelle scene di agnizione fra Oreste ed Elettra e Clitennestra, negli interventi di Pilade che a volte sembrano sfiorare involontari rischi di comicità.

Mentre ci sembra che il Cappellani abbia sostanzialmente visto giusto nel rilevare certa enfasi e letterarietà delle “visioni” spettrali, dove la ricerca di sublime da parte dell’Alfieri punta su mezzi piú esteriori alla potente poesia ottenuta altre volte con semplici battute e dall’intimo dell’azione, sia nell’Oreste, sia nel contemporaneo Agamennone, a proposito del quale il Cappellani riporta nel suo saggio introduttivo l’interpretazione piú comune, e secondo me errata, della tragedia “borghese” e poco alfieriana.

Ma anche per l’interpretazione di Oreste, quindi della tragedia, con la formula della poesia della giovinezza (a cui si deve un inutile excursus circa la poesia della giovinezza in Alfieri, e la presenza di confronti del personaggio con Amleto, con Sigfrido, con l’Emilio dell’opera omonima del Rousseau, che sono del tutto sfasati e dispersivi), essa mi appare insufficiente (la giovinezza è una componente della figura di Oreste, ma non la sua unica spiegazione) e, nel commento, pericolosa fonte di forzature come nel caso delle battute di Egisto nella scena 4 dell’Atto IV, che vengono considerate fra le piú alte della tragedia perché chiarirebbero nella bocca dell’avversario il carattere giovanile di Oreste.

Anche poco meditati e frutto di una scarsa conoscenza di questo aspetto del problema alfieriano sono gli accenni, nel saggio introduttivo, alla posizione storica dell’Alfieri nei riguardi del romanticismo (per la quale rimando all’ultimo capitolo del mio Preromanticismo italiano[2]) e ad un tentativo di caratterizzazione “barocca” dell’Alfieri (per la quale si parla persino di un’efficacia su di lui della «barocca Torino») che si appoggia sul saggio assai discutibile del Marzot, Concordanze e discordanze secentesche in Vittorio Alfieri[3].

Ottavia

È un’analisi psicologico-estetica[4] della tragedia alfieriana, di cui viene messo in forte rilievo il valore poetico soprattutto nella figura della protagonista, che l’autore ricostruisce nelle sue fondamentali intonazioni di elegia, di tenerezza, di dolorosa solitudine, di fragilità femminile.

Il Losavio rivendica giustamente l’altezza e l’originalità di questa figura contro alcune facili negazioni in nome di una mancata coerenza “verisimile” del suo amore per Nerone (che tuttavia ci sembra in molti punti portare davvero qualche nota meno sicura e un rischio di motivazione del personaggio con un atteggiamento di eccessiva sottomissione ad un sentimento effettivamente tanto meno sicuro e poetico di quello, fondamentale in Ottavia, di fedeltà alla propria purezza e nobiltà spirituale), ma sembra ignorare che tale rivendicazione non è nuova né solo attribuibile al Momigliano (basti ricordare l’analisi minuta e positiva fattane dal Fubini), e tende ad accentuare troppo in Ottavia i caratteri di tenerezza, di rassegnata sottomissione, di elegia che, pur cosí caratteristici in lei, sempre si appoggiano, nell’aristocratica poesia alfieriana, ad una salda base di eroica fermezza, di consapevolezza, nel personaggio, del proprio alto valore personale.

E perciò ci sembra male utilizzato il confronto di alcuni passi della redazione dell’edizione dell’83 con quella dell’edizione parigina, fatto per provare la maggiore coerenza della prima, in un linguaggio piú dimesso, di fronte alla seconda in cui l’Alfieri avrebbe cercato un rafforzamento di decoro tragico piú esterno.

In realtà le correzioni dei versi citati possono indicare come l’Alfieri giustamente volesse anche nel linguaggio rendere piú coerentemente alta e, a suo modo, energica una figura in cui i toni elegiaci, dolenti, femminili sono tanto piú poetici e sicuri quanto piú alieni da ogni possibile languore e da ogni pericolo prosastico, da ogni misura di umanità comune e mediocre.

D’altra parte, pur accettando il singolare fascino e il valore poetico di quel personaggio (davvero indimenticabile, come lo disse il Momigliano), occorre poi dire che come, e tanto piú, la tragedia non raggiunge nel suo insieme completa realtà, cosí quello non può mettersi sul piano altissimo di Mirra, né d’altra parte Mirra e Ottavia possono considerarsi «le uniche figure di donna della tragedia alfieriana»: e Clitennestra nell’Agamennone e nell’Oreste, e la bellissima figura di Antigone (di cui non manca in Ottavia la ripresa e lo sviluppo di alcuni elementi)?

Quanto alle altre figure della tragedia, il rapido giudizio del Losavio appare piuttosto generoso, specie per quanto riguarda Tigellino e Poppea; quanto a Seneca, piú che di una sua continua vita poetica sembra giusto notare che esso è vivo davvero nell’ultimo Atto, quando è come investito dalla superiore poesia di Ottavia e la sua azione, a favore dell’infelice imperatrice e a correzione delle tendenze delittuose di Nerone, si rivela dolorosamente inutile, e un accorato sentimento di debolezza senile e d’estrema accettazione della morte lo liberano da una certa “magistrale” garrulità rilevabile negli altri Atti.

Come discutibile, anche se efficace, è la figura di Nerone, piú vigorosamente abbozzata che compiuta e ricca di quel tormento interiore che farebbe presupporre la sua prima battuta all’inizio della tragedia.

E si noti in proposito che l’opinione del Momigliano (il critico a cui il Losavio si riferisce piú direttamente nel suo saggio) passò per l’Ottavia da una prima attenzione alla figura di Nerone ad una successiva limitazione di questa e al rilievo fortissimo della figura di Ottavia, e non viceversa (il saggio riportato nel volume del ’46, Introduzione ai poeti, è contrariamente a quanto sembra credere il Losavio – precedente alle pagine della Storia della letteratura italiana: esso era infatti l’introduzione all’edizione commentata del Saul del ’21).

Piú lungo discorso richiederebbe la conclusione del saggio («L’Ottavia preannuncia una sensibilità nuova nel teatro dell’Alfieri, meno corrusca, meno tesa, piú dimessa, piú malinconica, di una malinconia estranea a quella solita dell’Alfieri che poteva essere accoppiata all’ira e tutt’e due insieme essere chiamate: “due fere donne, anzi due furie atroci”»), in quanto essa presuppone, nella sua parziale verità, una precisazione circostanziale dello svolgimento poetico alfieriano (in un periodo nel quale si incontrano tragedie di molto diverso valore, e generalmente non prive di incertezze, con la rielaborazione delle prime tragedie condotte a volte alla migliore rivelazione del loro significato poetico) e una piú intera conoscenza dell’animo alfieriano, anche nuclearmente piú complesso e ricco di quanto appaia almeno ad una tradizione critica troppo ancorata alle limitazioni ottocentesche o a formule rigide ed unilaterali.

Saul

Partendo da una proposta sulla spiritualità alfieriana come «caratterizzata da uno scompenso di fondo fra una concezione dell’uomo e del vivere disincantata e pessimistica, ed un’ansia di umana grandezza ed una tensione eroica e magnanima, di letteraria derivazione e mediazione, che anelano travagliosamente a colmare l’iniziale vuoto e disagio morale» (che è soprattutto una ripresa dello schema fubiniano) e dalla postulazione di una crisi degli ideali illuministici patita senza molta consapevolezza critica per mancanza di disposizione filosofica, con un ritorno finale in questa specie di disagio morale e di iniziale disimpegno vitale di fondo, l’appassionato e intelligente studio del Masiello[5] delinea sommariamente il percorso delle prime tragedie alfieriane fino all’Ottavia, che documenta un arricchimento e approfondimento della giovanile ispirazione alfieriana e inaugura un nuovo corso della poesia alfieriana divenuta capace, con aggiunte coerenti nella Merope, di articolazioni piú complesse, meno rigide, piú ricche di umanità, per trovar poi nel Saul l’incontro delle due componenti fondamentali della spiritualità alfieriana: l’approfondimento della crisi illuministica e «l’urgere inconsapevole di una romantica tensione dialettica, l’albare presentimento e l’angosciata, travagliosa ansia di una giustificazione piú larga e piena dell’individuale».

Da qui si svolge la lunga analisi della tragedia incentrata nell’idea del «titano sconfitto», del «canto funebre, solennissimo ed altamente intonato, dell’umanesimo integrale dell’Alfieri, del suo individualismo eroico, che dopo aver celebrato i suoi trionfi, si ripiega sopra se stesso e prende coscienza dei suoi limiti, della sua insufficienza; ed incapace com’è di attingere altra liberazione, si salva nella rinunzia e nella morte». Analisi che, coerentemente alla linea piú interna del saggio, tende continuamente a rilevare i caratteri di sconfitta, di rabbia impotente, di rassegnazione anche del protagonista e insieme la funzione nuova dello sfondo di umanità minore, «nutrita di piú modeste, umane, pacate passioni (affetti umani e devozione al volere divino, amore tenero ed amicizia) che fa controcanto, su un registro minore, alla tortuosa e contraddittoria ed impotente passione di grandezza del protagonista, del quale sottolinea e approfondisce la tragica, dolente solitudine, mentre tenta di colmarla».

Un’appendice, assai eleborata e basata sullo studio dei manoscritti del Saul, punta, oltreché sul fatto che la tragedia non ha subito modificazioni (e che quindi il Saul è opera di ispirazione di getto e che in esso la crisi ideologica, da cui nasce, è giunta alla sua piena maturità), sull’“ammorbidimento” di linee e sui ridimensionamenti delle figure minori, nate da zone meno profonde dell’animo alfieriano e portate progressivamente a una maggiore funzione di luce e di simpatia e pietà gettata sul protagonista.

Un preciso esame della tesi centrale del saggio e del suo coerente consolidamento nell’analisi della tragedia (analisi a cui va riconosciuta l’impostazione funzionale ad un’interpretazione di fondo, l’impegno di una lettura storico-critica centrale, anche se poi l’analisi poteva piú spingersi avanti nella considerazione del linguaggio e delle forme particolari di una tragedia che è anche caratterizzata dalla volontà di una poesia di maggior varietà e fantasia contro le forme del secolo razionalistico «niente poetico, e tanto ragionatore») si trasformerebbe inevitabilmente in una particolare ripresa dell’impianto e del percorso del saggio, a cui riconosco comunque non solo un livello notevole generale, ma l’attiva presenza di precisazioni centrali che sviluppano con decisione motivi piú frammentariamente presenti nella critica alfieriana.

Mentre rimando, per una completa esplicazione delle idee sul Saul e sul periodo della sua genesi, al saggio in corso di pubblicazione nella Miscellanea in onore di Francesco Flora (e ad un saggio sulla Merope pure in corso di pubblicazione nella Miscellanea in onore di Carlo Pellegrini), bastino qui alcune osservazioni generali. Accertati cosí giustamente e convenientemente l’importanza centrale del Saul in una svolta essenziale della poetica alfieriana e il suo rapporto con la crisi dell’illuminismo (che è anche però apertura essenziale della nuova spiritualità preromantica), si può osservare che quella crisi poteva essere illuminata anche nei suoi aspetti letterari (il Parere alfieriano sul Saul andrebbe fortemente considerato anche in rapporto a quella volontà di una ripresa di quella poesia grande e varia che collega, a suo modo, l’Alfieri a un vasto moto delle poetiche preromantiche e neoclassiche contro la prosasticità e i pericoli di depressione poetica delle poetiche illuministiche, con il piú della sua rivolta piú profonda) e poteva essere approfondita sia in un piú completo studio del momento degli anni romani (fra Merope e correzione delle prime tragedie nell’81, con accentuazioni essenziali per la nuova complessità tragica dei personaggi, come io ho notato nel caso del Filippo), sia in una direzione generale che considerasse piú fortemente la componente eroica (sulla cui mediazione e derivazione letteraria non si può insistere poi eccessivamente) e di rivolta dell’individualità tragica, lontana dalla “rassegnazione” su cui mi pare qui si insista troppo.

Se si pensa poi alla Mirra, e allo schema del Parere fra il «suo» e il «non suo» (l’eroica virtú con cui Mirra difende la sua purezza e il peso di un ordine superiore che la condanna all’empietà e immette violentemente in lei lo scelus che la contamina), si capisce meglio come sia rischioso uno schema del Saul troppo incline alla valorizzazione di una rassegnazione e di un riconoscimento positivo della giustizia della «tremenda / mano». Nello stesso schema biblico (essenziale nella genesi del Saul) l’Alfieri intravvide poeticamente un contrasto drammatico tra l’uomo, dotato di volontà eroica e di dolorosa coscienza dei suoi limiti, e il limite di un ordine delle cose oppressivo e tirannico che egli non accetta e non venera anche se sotto di esso praticamente soccombe senza mai tacere la sua protesta.

Certo nell’Alfieri tardo non mancano accenni e pericoli di cedimento a versioni trascendenti e spiritualistiche di complesso significato, ma il suo centro (e la poesia che ne deriva) rimane sempre legato a forme di protesta, in cui è coinvolto anche ogni ordine ottimistico, razionalistico e illuministico.

Manca a lui la chiara coscienza atea di un Leopardi (e scambiare la posizione alfieriana con quella leopardiana è certo errore assai grave, anche per la diversa – ben rilevata dal Masiello – insufficienza filosofica alfieriana), ma nell’ingorgo tragico della sua posizione (tragico proprio nella sua situazione personale e storica) non si apre mai la via alla rassegnazione.

Mentre, sull’arco di un discorso riguardante tutto il diagramma alfieriano, si potrebbe da una parte osservare che l’arricchimento umano dei personaggi comincia già dall’Antigone, e dall’altra si dovrebbe rifiutare un troppo semplice ritorno all’iniziale pessimismo che svuoterebbe di molto la densità dello svolgimento alfieriano e perderebbe di vista le offerte di temi nuovi, di tentativi, anche se piú fiacchi, di nuovi valori (la nazione e abbozzi di stato costituzionale) che hanno pure peso storico e sono legati all’inesausta forza attiva dello spirito alfieriano, che nella stessa crisi illuministica portava in luce potenti germi preromantici. E basti pensare al Libro III del Principe e delle Lettere o alla stessa Vita, in cui non domina certo il tono della rassegnazione, della sconfitta, né solo quello dell’amara concezione pessimistico-scettica dell’uomo.

Non che nel saggio del Masiello manchino chiari spunti di interna correzione (e d’altra parte giuste reazioni agli schemi solo titanico-superomistici troppo facilmente applicati al Saul), ma il senso del suo discorso mi pare troppo teso di fatto a meno considerare quell’elemento essenziale di volitività eroica, di impegno di protesta senza di cui cade tutta la grande poesia alfieriana o si scioglie in toni dolenti e disimpegnati di sola elegia.

La giovinezza letteraria dell’Alfieri

Il Raimondi, già noto nel campo degli studi alfieriani per due saggi su L’ultimo Alfieri: il poeta delle «Commedie» («Convivium», 1949) e su Lo stile tragico alfieriano e l’esperienza della forma petrarchesca («Studi petrarcheschi», 1951)[6], ci offre in questo lungo saggio[7] una ricostruzione minuziosa ed attenta della giovinezza letteraria dell’Alfieri sulla linea della sua formazione culturale-letteraria e del suo noviziato di scrittore, riveduti attraverso le prose francesi, i primi esercizi in prosa italiana dalla seconda parte dei Giornali alle stesure italiane del Filippo e del Polinice e alle traduzioni dei classici latini.

Un primo capitolo ricostruisce le letture dell’adolescenza e della prima giovinezza, sulla scorta della narrazione della Vita e delle indicazioni raccolte soprattutto dal Bertana e dal Sirven (nella sua biografia alfieriana[8]), rilevando l’importanza, per gli anni dell’Accademia (in una scelta che «si muove tra la moda e il temperamento») della lettura di romanzi francesi (specie del Prévost – con il suo incontro di tetro e tenero –, la cui influenza è precisata per quanto riguarda poi i Giornali e le stesure francesi delle prime tragedie, e del Lesage, efficace nella direzione satirica fino all’Esquisse), poi, nell’inverno solitario e meditativo del ’69, degli scrittori illuministi, di Plutarco e di Montaigne, il quale ultimo incoraggiò la tendenza introspettiva dell’Alfieri, il suo gusto memorialistico e moralistico, e cercando di ricostruire, nell’epoca dei viaggi, la precisa situazione culturale del giovane Alfieri «prealfieriano», «dilettante aristocratico» e dotato di una notevole ricchezza di impressioni vive, di letture, di interessi etico-politici che trovano una prima sistemazione e un chiarimento nell’Esquisse du Jugement Universel della fine del ’73.

Questo singolare documento viene studiato, in un secondo capitolo, nei suoi precedenti culturali (Diable boiteux del Lesage e forse il picaresco Quevedo de Les sept visions, i moralisti francesi del Seicento e specialmente La Bruyère), nella sua importanza di esercizio di tono «comico-satirico-psicologico», pur nei limiti di un certo «artigianato stilistico» da parte di uno «scolaro indipendente», e nei suoi moduli di prosa discorsivo-analitica che si avvale degli esempi di prosa ad antitesi dei prosatori francesi del Settecento.

Un terzo capitolo studia i Giornali alla luce di un continuo rapporto con gli scrittori francesi (soprattutto Helvétius nell’Esprit e i moralisti del Cinque-Seicento) e mira a documentare l’incontro di ispirazione personale e di letterarietà di quelle pagine autobiografiche (in cui l’Alfieri risente ancora, ma con maggiore originalità, dell’atteggiamento romanzesco preromantico del Prévost) e a precisare le qualità stilistiche delle pagine francesi (fusione di toni narrativi e di toni meditativo-saggistici con un predominio di costruzioni ellittiche), che vengono riprese, in un impegno piú arduo, nella costruzione sintattica della parte italiana, in cui l’esperienza del diario intimo, «che convoglia i fermenti moralistici e romanzeschi della giovinezza, è il primo passo verso la conquista di una prosa di memoria» realizzata poi nella Vita.

Anche le stesure francesi del Filippo e del Polinice (e dell’incompiuto Carlo I) vengono calcolate, nel capitolo IV, nella formazione del prosatore (pur non senza accenni al loro valore come «ponte di passaggio verso la poesia»), e se ne rileva il carattere romanzesco-patetico (attraverso l’esame della stesura del Filippo), l’accento di âme sensible evidente pur nell’incontro con il primo vero rilievo alfieriano dell’eroe e del personaggio agonistico. Impasto di stile drammatico-oratorio-romanzesco che nella stesura italiana verrebbe ampliato in forme piú aperte, rafforzate in direzione drammatico-eloquente (e aulico-liricheggiante) per effetti di grandezza eroica, ai quali sono sacrificate le forme piú moderne della precedente stesura francese. Ma per giungere alla sua prosa matura l’Alfieri aveva bisogno, in quell’epoca di formazione, di «accertare» la sua lingua sui testi della grande tradizione italiana e nelle sue «risorse e nella sua interna varietà di impasto»: donde l’esercizio del tradurre, nelle «traduzionacce», fra ’75 e ’78, ispirato anche dagli insegnamenti della scuola del Tagliazucchi: traduzioni che il Raimondi esamina minutamente, come prove di un progressivo distacco dalla prosa francese, nell’ultimo capitolo del suo saggio, che si conclude appunto con la constatazione di un lungo lavoro del prosatore, che, «partito da una situazione eccezionale di viaggiatore e di bel esprit, di philosophe e di homme sensible», ha ora «chiuso il suo conto immediato con la cultura della prima giovinezza: l’ha immersa e ricostituita in un classicismo di fisionomia moderna, di gusto settecentesco con elementi preromantici, foggiandosi una lingua di “forte sentire”, capace di scendere, penetrante ed intensa, nel profondo del cuore, nei segreti colloqui dell’animo con se stesso».

L’interesse del saggio consiste soprattutto nel minutissimo studio delle forme stilistiche della prosa alfieriana nelle sue prime prove e nel passaggio dall’utilizzazione dei modelli francesi alla ricerca di una espressione piú originale in italiano, nel contatto sempre piú preciso con i modelli classici italiani e nell’esercizio corroborante delle traduzioni dal latino. In questa direzione (anche se si possono notare uno sforzo di graduazione che a volte sfiora una sottigliezza analitica eccessiva e la discutibilità di formule troppo complesse nella loro volontà di descrivere ogni minima componente dei vari momenti della prosa giovanile alfieriana, nella sua lenta formazione fra originalità e letterarietà) il Raimondi porta notevoli osservazioni in un terreno finora non sufficientemente esplorato.

Si ha però l’impressione di un certo squilibrio fra la disposizione analitica e la capacità di sintesi, quasi di un eccesso nella descrizione degli aspetti stilistici di un periodo formativo, in cui meritava di essere piú nettamente rilevato lo sviluppo dell’animo alfieriano, il maturarsi dei temi etico-politici e poetici che poi trovano rivelazione piena e profonda nell’opera del poeta.

E nuoce, in tal senso, a questo saggio, proprio la non completa – e del resto difficile – unificazione fra la ricerca troppo unilaterale della formazione della prosa alfieriana e quella meno approfondita dello sviluppo dell’intera personalità del poeta e delle condizioni non solo letterarie, ma anche storiche, entro cui essa si matura, delle vive esperienze del tempo e dei paesi fatte nei viaggi e qui piuttosto accennate che direttamente studiate.

Basti ricordare in proposito quanto possa essere interessante studiare le reazioni del giovane Alfieri alle condizioni politiche dei paesi visitati (il precoce rifiuto del sistema assolutistico illuminato, la viva sensibilità ai problemi della vita politica inglese, documentati nell’importante lettera ai Sabatier scritta nel secondo soggiorno inglese durante la lotta fra Burke, Ferguson e gli “amici del re” del Bolingbroke), il nesso fra letture ed esperienze dirette, e, per la formazione dell’animo poetico alfieriano, l’eccezionale acquisto di un nuovo sentimento della natura, in senso violentemente preromantico, nei viaggi nel Nord e in Spagna, l’accordo fra lo stimolo delle passioni, della musica, delle impressioni del paesaggio solitario e sconfinato e la rivelazione della vocazione poetica, che il Raimondi meno considera, troppo guardando alla formazione della prosa e operando un taglio rischioso nella formazione di tutta la personalità alfieriana.

E molte sarebbero naturalmente le osservazioni che si potrebbero fare su diversi punti di un percorso cosí lungo e minuziosamente indagato per quel che riguarda i vari documenti studiati e l’efficacia delle varie letture anche nei confronti del successivo sviluppo alfieriano nel difficile discrimine della narrazione della Vita con le sue sopraggiunte modificazioni, fatte quando il poeta rivide il suo periodo giovanile con l’occhio dell’uomo maturo e con i suoi precisati ideali culturali, politici, poetici (come avviene particolarmente per le letture degli illuministi, a proposito delle quali assai interessanti appaiono anche al Raimondi le correzioni della stesura definitiva della Vita rispetto alla prima, recentemente edita dal Fassò).

Ma ciò che sembra piú importante rilevare in questo lavoro, pur cosí fine e interessante, è proprio l’eccessiva importanza data agli aspetti letterari-stilistici a scapito dei momenti centrali della formazione alfieriana. Cosí, ad esempio, nell’Esquisse si poteva meglio enucleare, entro le forme del divertimento e dell’esercizio (con una disposizione di sceneggiatura, specie nella seconda e terza sessione, che andava pur calcolata), il forte scatto della personalità alfieriana nella condanna di un mondo frivolo e «senza cuore», indegno del nome di «uomo», specie nella prima sessione, piú statica artisticamente ma piú vivace per la stessa materia (re, ministri, cortigiani) trattata. E nei Giornali, la giusta considerazione del loro aspetto letterario e delle loro componenti di moda (che io rilevai nella mia introduzione ad una scelta delle Lettere pubblicata nella Universale Einaudi nel ’49) non deve escludere, ma solo meglio storicizzare, l’attenzione alla crisi del poeta cosí fortemente presente nelle belle pagine della Storia della letteratura italiana del Momigliano.

Il «poeta» Alfieri

Ulrich Leo, noto in Italia per i suoi saggi sul Fogazzaro e sul Tasso, caratterizzati da un incontro fra critica stilistica e critica psicologica di origine esistenzialistica, si occupa in questo saggio sul «poeta» Alfieri (di cui egli aveva studiato, in due saggi pubblicati nel Romanistisches Jahrbuch del ’52-53, la «composizione e psicologia» e le «varie forme dell’enfasi» della sua tragedia) del significato poetico (in realtà piuttosto psicologico-stilistico) e delle diverse forme del monologo nella tragedia alfieriana[9].

Lo studio muove dalla considerazione di una doppia linea nella critica alfieriana, condizionata dai contrastanti aspetti della stessa autocritica e attività poetica alfieriana: una linea prevalsa per tutto l’Ottocento e legata, nella sua valutazione dell’uomo e del patriota a scapito del poeta, all’autocritica e alla poetica volontaristica ed eroica dell’Alfieri; una linea piú recente (dal Croce in poi) e giustificata dall’effettiva realtà dell’opera alfieriana, che afferma il valore poetico dell’Alfieri contro la “leggenda” in parte da lui stesso creata.

Al culmine di questa nuova linea il Leo postula l’esigenza di nuovi studi analitici, che meglio precisino, con l’esame di particolari procedimenti dello stile tragico alfieriano, la reale essenza della sua poesia e il contrasto esistente nell’Alfieri fra le dichiarazioni programmatiche e critiche e la sua vera, istintiva ispirazione. Il presente articolo vuol essere una precisa applicazione di tali esigenze nell’esame del monologo alfieriano, in cui il poeta, rifiutando l’uso classico francese dei “confidenti” e, d’altra parte, condannando l’abuso dello stesso monologo nelle proprie prime tragedie, per sottrarsi alla «facile e triviale censura» dei contemporanei, avrebbe in realtà realizzato un mezzo stilistico singolare e di diversa giustificazione e significato, corrispondente alla complessità della sua poesia; giungendo nella Mirra a praticamente annullarlo nella sua forma tradizionale e ristabilirlo poi nell’Abele come vero e proprio dialogo che il personaggio ha con se stesso nell’impossibilità di istituirlo con una superiore presenza divina.

Nella Mirra il monologo, ridotto a tre soli casi (e uno solo della protagonista), sarebbe in realtà un monologo inespresso, una vera e propria rappresentazione del silenzio sulla scena, tanto piú poetico nel caso di Mirra, il personaggio «piú solitario» dell’Alfieri, la concretizzazione estrema di una tendenza alfieriana al silenzio del personaggio e al rifiuto della rivelazione esterna del proprio dramma interiore, taciuto persino a se stesso (l’opposto – in una situazione apparentemente simile – della Phèdre raciniana, in cui la tendenza caratteristica è quella della massima espressione interiore nella parola).

Nel Filippo invece, all’inizio dell’attività alfieriana, l’Alfieri sarebbe a mezza strada fra il “parlare” di Fedra e il silenzio di Mirra, e il monologo costituirebbe il procedimento tecnico-stilistico richiesto dal motivo dominante della tragedia: il «ritegno» dei personaggi sotto la pressione di un dispotismo anch’esso silenzioso e controllatissimo. Monologhi soltanto apparenti sarebbero poi, nell’Agamennone, quelli di Egisto, quasi dialoghi del personaggio con una presenza spettrale, avvertita in una visione (altrove in visioni e in audizioni di voci immateriali) come avviene anche nel Saul nei riguardi della presenza spettrale di Samuele, nei personaggi di Saul e di David: e David come Egisto trarrebbero anzi da questa particolare presenza di altri e superiori personaggi spettrali nei loro monologhi quella maggiore carica di tensione tragica, di cui l’Alfieri li sentiva mancanti nei suoi «pareri», con la solita contraddizione con la sua ispirazione, che avrebbe cosí risollevato nella pratica attuazione poetica quei personaggi apparentemente secondari, schiacciati nella teoria (in Egisto c’è anche Tieste, in David c’è anche Samuele). Infine un’altra forma di monologo, come monologo-dialogo, sarebbe nell’Abele quella di Caino, che non potendo parlare con Dio parla con se stesso in una specie di dualizzazione intima del personaggio.

Tutta la costruzione del Leo, pur cosí interessante e ricca di fini osservazioni, appare piú sottile che vigorosa, e varie obiezioni si potrebbero fare sia alla sua tesi centrale (il contrasto tra Alfieri autocritico e Alfieri poeta, fra la rigidità della sua teoria tragica e la grande varietà di procedimenti del suo concreto operare poetico) sia ai particolari della sua analisi e alla stessa funzione e validità di questa, oltre che alle interpretazioni delle tragedie esaminate, implicite in quell’analisi, e alle valutazioni di storia della critica contenute nel testo e nelle numerose note denotanti larga ma non sempre completa informazione sullo stato attuale degli studi alfieriani (ad esempio la conoscenza del lavoro filologico compiuto dallo Jannaco sul testo delle tragedie sarebbe potuta riuscirgli particolarmente utile per lo studio della scomparsa dei “confidenti” nella prima attività tragica alfieriana, nel passaggio dalle Idee e dalle stesure francesi e italiane, per il Filippo e il Polinice, alle versificazioni).

Per quel che riguarda la storia della critica (la lettura del saggio del Cappuccio, La critica alfieriana, Firenze, La Nuova Italia, 1951, avrebbe aiutato il Leo a considerare aspetti della situazione storica e letteraria dell’Alfieri che non appaiono considerati nel suo articolo), basti osservare (a parte il silenzio sulla critica desanctisiana che, malgrado la sua posizione limitativa, poteva ben appoggiare la sua interpretazione della poesia del silenzio nella Mirra) che la sua fondamentale osservazione di un’insufficienza dell’autocritica alfieriana e del contrasto in Alfieri fra posizione teorica e attività poetica non tiene conto dei motivi critici della critica novecentesca, che giustificano in maniera tanto piú duttile e complessa il rapporto esistente fra poetica e poesia alfieriana, fra passione politica e poesia, il valore che l’autocritica e i propositi programmatici ebbero nello sviluppo concreto della poesia dell’Alfieri e il valore del suo sogno eroico ed agonistico come inconsapevole ma efficace simbolo della sua poesia e del suo significato nella storia della formazione della spiritualità romantica.

Quanto alle osservazioni sul monologo alfieriano, esse appaiono troppo astratte da una piena considerazione di tutta la poesia alfieriana e del suo sviluppo, cosí come le interpretazioni delle tragedie esaminate in funzione del suo particolare assunto analitico rimangono poco persuasive quando si staccano da precedenti giudizi piú centrali e complessi, e l’analisi del monologo ne risulta piú incerta ed astratta. Specie nel caso del Filippo, il cui motivo poetico non si può ridurre al «ritegno», che comunque cela una passione di liberazione e di affermazione del personaggio alfieriano cosí viva, a suo modo, in Carlo, Isabella e soprattutto nel protagonista, la cui stessa scontentezza potente nel finale della tragedia sembra oltre tutto indicare un altro atteggiamento di monologo svolto in un dialogo conclusivo con Gomez («Ma, felice son io?»), cosí essenziale allo stesso fondamentale motivo animatore di tutta la poesia alfieriana[10].

Né le osservazioni su Egisto risolvono la complessità del rapporto di questo personaggio con il motivo fondamentale dell’Agamennone, la cui grandezza poetica non appare intuita negli accenni a quella tragedia. E se l’osservazione sull’efficacia e il valore delle visioni di Egisto e di David è assai interessante ed acuta, piú dubbio sarebbe estendere il valore delle “visioni” nell’opera alfieriana, troppo spesso convenzionalmente letterarie e, spesso, letterario ed enfatico surrogato di quel sublime, di quegli effetti arcani e potenti che l’Alfieri raggiunge altrove dall’intimo dell’azione e dall’espressione piú diretta del tormento e dell’ansia ribelle e dolorosa dei suoi grandi personaggi poetici.

Perché in questo interessante saggio colpisce soprattutto (oltre ad un’oscillazione nella spiegazione del procedimento del monologo, studiato fra vera giustificazione personale-poetica e derivazione letteraria, come sembra avvenire quando il critico ritrova tutte le forme del monologo alfieriano nel Pastor fido del Guarini) uno scarso senso del realizzato valore poetico e, malgrado il forte rilievo dato al «poeta» e alla vitalità complessa ed istintiva della sua poesia, una concezione della poesia piú come documento di animo e di stile che come autonoma, personale e inscindibile realtà. Troppo questo tipo di critica (comunque assai interessante e significativa da un punto di vista culturale) si appunta a particolari procedimenti tecnico-stilistici astratti dalla piena realtà dell’opera poetica e a giustificazioni psicologiche e schematiche, la cui attenzione e finezza (davvero notevoli in questo saggio cosí stimolante) rimangono pur diverse dalle caratteristiche di un’interpretazione critica centrale e storico-estetica.

Della Tirannide

Il Ferrero, riprendendo e svolgendo piú ampiamente concetti già esposti nel suo libro L’anima e la poesia di Vittorio Alfieri e utilizzando posizioni della piú recente critica alfieriana a proposito dell’atteggiamento politico alfieriano (dal Salvatorelli al Fubini), studia in questa nota[11] la celebre opera del ’77 mirando a precisarne l’animo ispirativo (che ne fa «qualchecosa di piú e qualchecosa di meno che un trattato politico»), i motivi fondamentali delle varie parti, il rapporto con la stessa ispirazione oratoria e poetica delle tragedie. In una prima parte egli esamina appunto la genesi dell’opera, nel ’77, accanto alla Virginia e alla Congiura de’ Pazzi, come sfogo violento del sentimento antitirannico alfieriano, ben chiarito nella dedica alla Libertà, vibrante di un alto senso personale e di una fede eroica, la cui attenuazione e incrinatura successive vengono documentate nella seconda stesura della stessa dedica e di tutto il libro.

Poi l’opera («piuttosto che un trattato politico [...] un saggio di “scienza dell’uomo”», mosso sentimentalmente e oratoriamente da una potente indignatio etica e da un autobiografico timore del poeta «di potere un giorno essere offeso e svilito dalla paura») viene descritta nelle sue varie parti e caratterizzata nella prevalente presenza ed efficacia di «ritratti, di profili, di schizzi, che mirano tutti a far vedere in quanti modi diversi si possa essere vili, servili, codardi».

Tale descrizione punta soprattutto sul I Libro e piú sui capitoli ricchi appunto di «abbozzi di figure e di scene» e insieme di motivi anche politicamente piú validi e nuovi, ritrovati specie nei capitoli XI e XIII sulla nobiltà e sul lusso, che offrirebbero piú precisamente «quel tanto, o quel poco, di nuovo nella storia del pensiero politico, che ci può offrire il trattato». Piú rapidamente è considerato il II Libro (dove meno ricca è la «galleria dei codardi» su cui piú il Ferrero insiste), notevole comunque per la presenza del motivo estremistico del “tanto peggio tanto meglio” e per quella chiusa del capitolo VII in cui «il poeta contempla con un senso di orrore il danno che dalla tirannide può venire, piú che alla persona e alle cose nostre, alla nostra anima».

Nella conclusione, sottolineato nuovamente il valore della «galleria dei codardi» e dell’analisi della «paura» come «uno dei piú notevoli contributi che l’Alfieri diede a quella “scienza dell’uomo” cui egli e i suoi contemporanei attribuivano gran pregio», il Ferrero collega i toni fondamentali dell’opera ai due toni fondamentali dell’oratoria e della poesia alfieriana in genere: l’esercitazione antitirannica e l’ansia della libertà interiore, fra di loro inseparabili, scaturiti dal «senso geloso e a volte esasperato della dignità umana», ritrovati presenti in tutte le maggiori tragedie alfieriane (Filippo, Antigone, Agamennone, Oreste, Saul, Mirra), nelle quali essi piú profondamente e poeticamente si trasfigurano nel senso romantico dell’«estraneità» e nel «travaglio delle coesistenze impossibili», culminanti in Saul e Mirra.

La nota che, come si vede, implica l’esigenza di una rinnovata ricerca nelle radici di tutta l’opera alfieriana e nella vita interiore del poeta (e testimonia cosí la nobile insoddisfazione, il bisogno dello studioso di nuovamente indagare e chiarire a se stesso la realtà del proprio difficile autore, pur sulla base della sua prima e piú generale interpretazione), appare assai interessante, ma suscettibile di discussione sia per le inferenze sulla poesia alfieriana in generale sia per la caratterizzazione della Tirannide e per la stessa analisi (piú spesso descrizione) dei suoi motivi e delle sue parti.

Senza discutere qui la parte generale (che del resto implicherebbe una discussione con tutta l’interpretazione del Ferrero nel suo libro citato), vorrei almeno osservare, per quel che riguarda la Tirannide, che per davvero «mettere in giusta luce» quell’opera sarebbe necessaria anche una sua piú sicura collocazione nello sviluppo della personalità alfieriana, anche con una nuova precisazione del rapporto dell’Alfieri con la cultura politica settecentesca. Perché, se il libro è soprattutto opera di passione piú che di pensiero, gli stessi miti politico-poetici dell’Alfieri pur si precisano e si articolano in una complessa reazione sentimentale e culturale, a volte troppo poco considerata nel suo secondo elemento.

Anche la caratterizzazione prevalente del libro come «galleria dei codardi» e come contributo alla “scienza dell’uomo” (da cui poi si potrebbe risalire al rilievo di un esercizio psicologico-poetico in relazione a temi, a personaggi, a situazioni delle tragedie su cui tanto acutamente insisté il Momigliano) mi sembra eccessiva rispetto al carattere – che pure il Ferrero inizialmente rileva – del libro come appassionata e giovanile battaglia, come violento sforzo combattivo.

Quanto alla posizione della Tirannide nello sviluppo della poesia alfieriana, penso che ancor piú di un generale riferimento ai rapporti fra quest’opera e tutta la tragedia alfieriana potrebbe essere utile un piú preciso studio del rapporto tra il libro e le tragedie di libertà, che nascono su quell’impulso politico-sentimentale e ne ricavano un’indubbia prevalente tendenza oratoria, tanto piú aperta ed efficace – ma ben lontana dalla vera poesia alfieriana – dove la fede eroica, la speranza nella finale insurrezione del popolo nettamente contrasta con le condizioni pessimistiche e catastrofiche della piú profonda poesia alfieriana. Si pensi all’impostazione e al singolare finale tragico-ottimistico della Virginia e all’esito oratorio di quell’opera, e, per contrasto, al ben diverso risultato poetico della Congiura de’ Pazzi, tanto piú coerente nella sua intonazione pessimistica a quel motivo poetico-tragico schiettamente alfieriano che traspare e vibra in tanta parte di quella tragedia sotto il puro fervore politico.

Ed anche per la stessa descrizione delle varie parti, per il rilievo di interesse “alfieriano” dei vari capitoli, mi sembra che andrebbero piú sottolineati, anche se molto noti, certi motivi importanti (anche per la stessa efficacia etico-politica del trattato e la sua ricchezza di potente suggestione), come quello (nel capitolo sulla milizia) dell’assurdità di una «patria» senza «libertà», o come, nel capitolo sulla religione (oltre il motivo giustamente indicato dal Ferrero dalla naturale alleanza della Chiesa, perché ricca, con il potere politico conservatore dei privilegi sociali, dei possessi economici), l’estrema indicazione del legame fra tirannide politica e religione dogmatica e autoritaria e addirittura fra l’idea di un Dio padrone dispotico e la stessa idea del tiranno politico (legame che tanto faceva inorridire Rosmini e che tanto suggerisce circa la stessa intuizione tragica della vita propria dell’Alfieri).


1 V. Alfieri, Oreste, con saggio introduttivo e commento di N. Cappellani, Roma, Barjes, 1953 (19582), pp. XXXIV-92.

2 Alle pp. 125-133 di questo volume.

3 «Convivium», XVII (1949), (n. 3, Scritti sull’Alfieri, interamente dedicato al poeta), pp. 388-413.

4 F. Losavio, L’«Ottavia» dell’Alfieri, «Atti e Memorie dell’Accademia di Scienze Lettere ed Arti di Modena», vol. XI (1953), pp. 70-84.

5 V. Masiello, Il «Saul» nella storia della poesia alfieriana, «Convivium», XXIX (1961), pp. 561-579, 677-696; poi – senza le prime nove pagine – col titolo Il «Saul» e la crisi interna dell’umanesimo alfieriano, in Id., L’ideologia tragica di Vittorio Alfieri, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964, pp. 157-209.

6 Ora in Id., Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, pp. 191-241, con il titolo La voce tragica nel registro petrarchesco.

7 E. Raimondi, La giovinezza letteraria dell’Alfieri. Dalla prosa francese ai primi esercizi italiani, «Memorie dell’Accademia delle Scienze di Bologna, Classe di Scienze Morali», vol. IV (1953); ora con il titolo Giovinezza letteraria dell’Alfieri in Id., Il concerto interrotto cit., pp. 65-190.

8 P. Sirven, Vittorio Alfieri, 8 voll., Paris, Droz (voll. 1-4) e Boivin (voll. 5-8), 1934-1950.

9 U. Leo, Der Dichter Alfieri (Monologe, Scheinmonologe, Visionen), «Letterature moderne», IV (1953), pp. 653-671.

10 Si veda in proposito la mia osservazione nel volume Poetica, critica e storia letteraria e altri scritti di metodologia, Firenze, Le Lettere, 1993, pp. 66-70.

11 G.G. Ferrero, La «Tirannide» di Vittorio Alfieri, «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXII (1955), pp. 380-395.